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Ora e per sempre
Sophie Love


La Locanda di Sunset Harbor #1
Emily Mitchell, una giovane donna di 35 anni che vive e lavora a New York City, si è lasciata alle spalle una serie di relazioni fallimentari. Quando quello che da ormai sette anni è il suo fidanzato la porta fuori a cena per il loro anniversario a lungo atteso, Emily è certa che stavolta sarà diverso, che stavolta finalmente le verrà offerto l’anello.   Quando però lui le regala una bottiglietta di profumo, Emily capisce che è il giunto il momento di rompere con lui – e di dare inizio a una nuova vita per sé.   Soffocata dalla sua vita stressante e insoddisfacente, Emily decide di aver bisogno di un cambiamento. Decide d’impulso di partire per un lungo viaggio in auto fino alla costa del Maine, destinazione: la casa abbandonata di suo padre, un edificio storico e immenso dove ha trascorso magiche estati quando era una bambina. Ma la casa, a lungo trascurata, ha bisogno di essere restaurata, e l’inverno non è clemente nel Maine. Emily non ci torna da vent’anni, da quando un tragico incidente ha cambiato la vita di sua sorella e distrutto la sua famiglia. I suoi genitori hanno divorziato, suo padre è scomparso, ed Emily non è mai più stata capace di metterci piede.   Ora, per qualche ragione, Emily si sente attratta dall’unico luogo della sua infanzia che abbia mai conosciuto. Il piano è di restarci solo per il weekend, per schiarirsi le idee. Ma qualcosa in quella casa, i suoi numerosi segreti, i ricordi del padre, il fascino del lungomare, la cittadina in cui si trova – e soprattutto il suo meraviglioso e misterioso custode – non vogliono che se ne vada. Riuscirà a trovare le risposte che sta cercando proprio lì, nel posto più imprevisto del mondo?  Un weekend può trasformarsi in una vita intera?  ORA E PER SEMPRE è il libro #1 della prima e stupefacente serie romantica che vi farà ridere, piangere, e vi terrà incollati alla pagina fino alla fine – e che vi farà di nuovo innamorare dei romanzi d’amore.   Il libro #2 sarà presto disponibile.







ORA E PER SEMPRE



(LA LOCANDA DI SUNSET HARBOR—LIBRO 1)



S O P H I E L O V E


Sophie Love



Fan da tutta la vita dei romanzi d’amore, Sophie Love è felice di presentare la sua serie di debutto: ORA E PER SEMPRE (LA LOCANDA DI SUNSET HARBOR—LIBRO 1). Visita il suo sito internet www.sophieloveauthor.com (http://www.sophieloveauthor.com) per scrivere a Sophie, entrare a far parte della mailing list, ricevere e-book gratis ed essere sempre al corrente delle ultime novità!



Copyright © 2016 di Sophie Love. Tutti i diritti riservati. Salvo per quanto permesso dalla legge degli Stati Uniti U.S. Copyright Act del 1976, è vietato riprodurre, distribuire, diffondere e archiviare in qualsiasi database o sistema di reperimento dati questa pubblicazione in alcuna forma o con qualsiasi mezzo, senza il permesso dell’autore. Questo e-book è disponibile solo per fruizione personale. Questo e-book non può essere rivenduto né donato ad altri. Se vuole condividerlo con altre persone, è pregato di aggiungerne un’ulteriore copia per ogni beneficiario. Se intende rileggere l’e-book senza aver provveduto all’acquisto, o se l’acquisto non è stato effettuato per suo uso personale, è pregato di restituirlo e acquistare la sua copia. La ringraziamo del rispetto che dimostra nei confronti del duro lavoro dell’autore. Questa storia è opera di finzione. Nomi, personaggi, aziende, organizzazioni, luoghi, eventi e incidenti sono frutto dell’immaginazione dell’autore o sono utilizzati in modo romanzesco. Ogni riferimento a persone reali, in vita o meno, è una coincidenza. Immagine di copertina Copyright kak2s, utilizzata con il permesso di Shutterstock.com.


INDICE



CAPITOLO UNO (#u2922c063-35ac-5812-a8b2-c1b3a50e8a83)

CAPITOLO DUE (#u12d233c5-4f89-5920-9fed-4a7394cab6fb)

CAPITOLO TRE (#ue4fdfbf8-9127-5581-9130-d70f8726836f)

CAPITOLO QUATTRO (#uebba3e67-4cad-59f7-8a33-334121f9c958)

CAPITOLO CINQUE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO SEI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO SETTE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO OTTO (#litres_trial_promo)

CAPITOLO NOVE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO DIECI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO UNDICI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO DODICI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO TREDICI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO QUATTORDICI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO QUINDICI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO SEDICI (#litres_trial_promo)

CAPITOLO DICIASSETTE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO DICIOTTO (#litres_trial_promo)

CAPITOLO DICIANNOVE (#litres_trial_promo)

CAPITOLO VENTI (#litres_trial_promo)




CAPITOLO UNO


Emily fece scorrere la mani lungo la seta nera del vestito, distendendone le pieghe per quella che doveva essere la centesima volta, quella sera.

“Sembri nervosa,” disse Ben. “Hai appena toccato la cena.”

Scoccò un’occhiata al pollo che per metà aveva lasciato nel piatto, e poi risollevò lo sguardo verso Ben, che le sedeva di fronte a una tavola meravigliosamente imbandita, con il viso illuminato dalla luce della candela. Per il loro settimo anniversario, l’aveva portata nel ristorante più romantico di New York.

Ma certo che era nervosa.

Soprattutto visto che la scatolina di Tiffany che aveva trovato nascosta nel cassetto dei calzini settimane prima non c’era più quando aveva controllato quella sera. Era sicura che quella sarebbe stata la sera in cui finalmente le avrebbe chiesto di sposarlo.

Pensarci le faceva battere forte il cuore dalla trepidazione.

“È solo che non ho molta fame,” rispose.

“Oh,” disse Ben, un po’ perplesso. “Quindi non vuoi il dolce? Io ho messo gli occhi sulla mousse al caramello.”

Il dolce proprio non lo voleva, ma d’un tratto le venne il timore che forse Ben avesse nascosto l’anello nella mousse. Sarebbe stata una proposta di matrimonio stucchevole, ma a questo punto le sarebbe andata bene qualsiasi cosa. Dire che Ben aveva paura di impegnarsi era minimizzare. Gli ci erano voluti due anni di relazione per lasciarle tenere uno spazzolino nel suo appartamento – e quattro per farla trasferire da lui.

Se lei introduceva l’argomento bambini, lui diventava bianco come un lenzuolo.

“Ordina pure la mousse se vuoi,” disse. “Io ho ancora il mio bicchiere di vino.”

Ben alzГІ le spalle e poi chiamГІ il cameriere, che portГІ via veloce il piatto vuoto e il mezzo pollo di Emily.

Ben allungГІ le mani e prese quelle di Emily nelle sue.

“Ti ho detto che sei bellissima stasera?” chiese.

“Non ancora,” rispose lei, sorridendo maliziosamente.

Sorrise anche lui. “Allora, sei bellissima.”

Poi infilГІ una mano in tasca.

Il cuore di Emily parve fermarsi. Ecco. Stava accadendo davvero. Tutti quegli anni di angoscia, di pazienza da monaco buddista, stavano finalmente per ripagarla. Stava per provare a sua madre che era in errore, sua madre che sembrava divertirsi a dirle che non sarebbe mai riuscita a far percorrere la navata a un uomo come Ben. Per non parlare della sua migliore amica, Amy, che aveva di recente sviluppato la mania dopo un bicchiere di vino di troppo di mettersi a implorare Emily di non sprecare altro tempo con Ben perché trentacinque anni non erano assolutamente “troppi per trovare il vero amore.”

Deglutì mentre Ben tirava fuori la scatolina di Tiffany dalla tasca e la faceva scivolare sulla tavola verso di lei.

“Che cos’è?” riuscì a chiedere.

“Aprila,” rispose con un largo sorriso.

Non si era messo in ginocchio, notГІ Emily, ma andava bene comunque. Non le serviva una proposta tradizionale. Le serviva un anello. Qualunque anello sarebbe andato bene.

Prese la scatolina, la aprì – e poi si accigliò.

“Cosa… diavolo…?” balbettò.

La guardГІ sotto choc. Era una bottiglia da trenta millimetri di profumo.

Ben sorrise, come estasiato dalla sua opera.

“Non sapevo che vendessero anche profumi,” rispose Ben. “Pensavo che vendessero solo gioielleria troppo costosa. Vuoi che te lo metta?”

Improvvisamente incapace di contenere le proprie emozioni, Emily scoppiò a piangere. Tutte le sue speranze andarono in pezzi. Si sentiva un’idiota anche solo per essersi permessa di pensare che quella sera avrebbe potuto chiederle di sposarlo.

“Perché piangi?” chiese Ben, corrucciato, improvvisamente addolorato. “La gente ci guarda.”

“Avevo pensato…” balbettò Emily, sfiorando con lo sguardo la tovaglia, “con il ristorante, e visto che era il nostro anniversario…” Era incapace a tirar fuori le parole.

“Sì,” disse Ben freddamente. “È il nostro anniversario e io ti ho preso un regalo. Scusami se non è abbastanza bello, ma tu non me l’hai neanche comprato.”

“Avevo pensato che mi avresti chiesto di sposarti!” urlò alla fine Emily, buttando il tovagliolo sulla tavola.

Nella sala il mormorio si zittì quando le persone smisero di mangiare per voltarsi a fissarla. A lei non importava più.

Gli occhi di Ben si spalancarono dalla paura. Sembrava anche piГ№ spaventato di quando lei parlava della possibilitГ  di mettere su famiglia.

“Perché ti vuoi sposare?” chiese.

Emily venne colta da un momento di chiarezza. Lo guardГІ come se lo vedesse per la prima volta. Ben non sarebbe mai cambiato. Non si sarebbe mai impegnato. Sua madre, Amy, avevano avuto entrambe ragione. Aveva sprecato anni in attesa di qualcosa che ovviamente non sarebbe accaduto, e quella minuscola bottiglietta di profumo era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso.

“È finita,” disse Emily, senza fiato, gli occhi improvvisamente asciutti. “È davvero finita.”

“Sei ubriaca?” gridò Ben, incredulo. “Prima vuoi sposarti, e adesso vuoi rompere?”

“Non sono ubriaca,” disse Emily. “Solo che non sono più cieca. Tutto questo – io e te – non è mai stata una cosa buona.” Si alzò, gettando il tovagliolo sulla sedia. “Me ne vado da casa tua,” disse. “Per stanotte starò da Amy, e domani verrò a prendere la mia roba.”

“Emily,” disse Ben, cercando di toccarla. “Possiamo parlarne, per favore?”

“Perché?” replicò. “Così puoi convincermi ad aspettare altri sette anni prima di comprarci una casa nostra? E altri dieci prima di avere un conto in banca in comune? Diciassette anni prima che tu possa anche solo considerare l’idea di prendere un gatto insieme?”

“Per favore,” diceva Ben sottovoce, guardando il cameriere che si avvicinava col dolce. “Stai facendo una scenata.”

Emily sapeva di fare una scenata, ma non le importava. Non avrebbe cambiato idea.

“Non c’è nient’altro di cui parlare,” disse. “È finita. Goditi la tua mousse!”

E con queste ultime parole, si precipitГІ fuori dal ristorante.




CAPITOLO DUE


Emily fissava la tastiera, desiderando che le dita si muovessero, che facessero qualcosa, qualsiasi cosa. Apparve un’altra email nella sua casella di posta, e la guardò con aria vuota. Le chiacchiere dell’ufficio attorno a lei le entravano da un orecchio e uscivano dall’altro. Non riusciva a concentrarsi. Si sentiva stordita. La nottata completamente in bianco che aveva passato sul bitorzoluto divano di Amy non migliorava di molto la situazione.

Era al lavoro da un’ora intera ma non era riuscita a fare molto altro che accendere il computer e bere una tazza di caffè. Aveva la mente del tutto consumata dai ricordi della sera precedente. Il viso di Ben continuava a tornarle in mente. Si sentiva spaventata ogni volta che riviveva quella terribile serata.

Il telefono si illuminò, guardò lo schermo e vide il nome di Ben che lampeggiava per l’ennesima volta. Chiamava, ancora. Emily non aveva risposto a una sola delle sua telefonate. Che cosa c’era da dire adesso? Aveva avuto sette anni per decidere se volesse stare con lei o meno – un tentativo dell’ultimo minuto per salvare la situazione non sarebbe servito adesso.

Squillò il telefono dell’ufficio e lei fece un balzo sulla sedia, poi lo afferrò.

“Pronto?”

“Ciao, Emily, sono Stacey del quindicesimo piano. Ho qui un appunto che dice che saresti venuta alla riunione di stamattina e volevo sapere perché non ti sei presentata.”

“CAZZO!” urlò Emily, buttando giù il telefono. Si era completamente dimenticata della riunione.

Saltò su dalla scrivania e attraversò di corsa l’ufficio fino all’ascensore. La sua agitazione sembrava divertire i colleghi, che si misero a bisbigliare come bambini scemi. Quando raggiunse l’ascensore, schiacciò il palmo della mano contro il bottone.

“Muoviti, muoviti, muoviti!”

Ci volle un’eternità, ma alla fine l’ascensore arrivò. Quando le porte si aprirono, Emily si precipitò fuori solo per scontrarsi con qualcuno che stava arrivando. Mentre indietreggiava, senza fiato, si accorse che la persona con cui si era scontrata era il suo capo, Izelda.

“Mi scusi tanto,” balbettò Emily.

Izelda la squadrò da capo a piedi. “Per cosa, esattamente? Per essermi venuta addosso o per aver saltato la riunione?”

“Tutte e due,” rispose Emily. “Ci stavo andando adesso. Mi è completamente passata di mente.”

Sentiva ogni singolo occhio dell’ufficio puntato sulla schiena. L’ultima cosa di cui aveva bisogno adesso era una dose di umiliazione pubblica, qualcosa che Izelda amava molto dispensare.

“Ce l’ha un calendario?” disse Izelda freddamente, incrociando le braccia.

“Sì.”

“E lo sa come funziona? Come ci si scrive sopra?”

Dietro di lei, Emily riusciva a sentire gli altri reprimere le risate. Il suo primo istinto fu di appassire come un fiore. Essere presa in giro davanti a un pubblico era la sua idea di incubo. Ma proprio come al ristorante la sera precedente, uno strano senso di chiarezza la assalì. Izelda non era un’autorità da ammirare per forza e ai cui capricci adattarsi. Era solo una donna amareggiata che sfogava la rabbia su chi poteva. E quei colleghi che sparlavano non avevano nessuna importanza.

Un’improvvisa ondata di consapevolezza la inondò. Ben non era l’unica cosa che non le piaceva della sua vita. Odiava anche il suo lavoro. Quella gente, quell’ufficio, Izelda. Era bloccata lì da anni, così come era rimasta bloccata con Ben. E non aveva più intenzione di sopportarlo.

“Izelda,” disse Emily, chiamando il suo capo per nome per la prima volta, “Sarò sincera. Non sono venuta alla riunione, mi è sfuggito di mente. Non è una tragedia.”

Izelda la guardГІ torva.

“Come si permette!” sbottò. “La farò rimanere inchiodata alla scrivania fino a mezzanotte per il prossimo mese finché non avrà imparato che significa essere sollecita!”

Con quelle parole, Izelda la sfiorГІ passando, spingendole la spalla, come per andarsene infuriata, con lo sguardo che diceva che la questione era chiusa.

Ma quello di Emily diceva altrimenti.

Emily la raggiunse e la afferrГІ per la spalla, fermandola.

Izelda si voltГІ e le fece una smorfia, scostando le mani di Emily come se fosse stata morsa da un serpente.

Ma Emily non cedette.

“Non avevo finito,” continuò Emily, tenendo la voce completamente calma. “La tragedia è questo posto. Sei tu. È questo stupido, insignificante, alienante lavoro.”

“Prego?” urlò Izelda, il viso rosso di rabbia.

“Mi hai sentita,” rispose Emily. “A dire il vero, credo proprio che tutti mi abbiano sentita.”

Emily guardò i colleghi, che la fissavano di rimando, sbalorditi. Nessuno si aspettava che la tranquilla e accondiscendente Emily scattasse così. Le venne in mente che Ben le aveva detto che stava facendo “una scenata” la sera precedente. Ed ecco che ne faceva un’altra. Solo che questa volta si stava divertendo.

“Puoi prendere il tuo lavoro, Izelda,” aggiunse Emily, “e ficcartelo su per il culo.”

Poteva praticamente sentirli rantolare dietro di lei.

Spintonò via Izelda per infilarsi in ascensore, poi ruotò sui talloni. Premette il pulsante del piano terra per quella che, come realizzò con assoluto sollievo, sarebbe stata l’ultima volta della sua vita, poi guardò la scena dei suoi scioccati colleghi che la fissavano mentre le porte si chiudevano e li lasciavano fuori. Sospirò profondamente, sentendosi più libera e più leggera di quanto si fosse mai sentita prima.



*



Emily corse su per le scale che portavano al suo appartamento, accorgendosi che quello non era il suo appartamento – non lo era mai stato. Aveva sempre sentito di vivere in casa di Ben, di dover essere il più piccola e il più discreta possibile. Rovistò in cerca delle chiavi, grata che Ben fosse al lavoro e di non dover averci a che fare.

Entrò e guardò la casa con occhi diversi. Niente era di suo gusto lì. Tutto sembrava aver preso un altro significato: l’orribile divano per cui lei e Ben avevano litigato al momento dell’acquisto (litigio che aveva vinto lui); lo stupido tavolino da caffè che lei voleva buttare via perché una delle gambe era più corta delle altre e traballava sempre (ma al quale Ben era legato da “ragioni sentimentali” e che quindi era rimasto); l’enorme tv che era costata decisamente troppo e che occupava troppo spazio (ma di cui Ben aveva insistito di aver bisogno per guardare lo sport perché era “l’unica cosa” che lo rilassava). Afferrò un paio di libri dallo scaffale, notando che i suoi romanzi rosa erano stati relegati nell’ombra dello scaffale più basso (Ben si preoccupava sempre che i suoi amici lo avrebbero giudicato poco intellettuale se avessero visto dei romanzi rosa sullo scaffale – lui preferiva i saggi accademici e filosofici, anche se sembrava non leggerli mai).

Stava guardando al di sopra delle fotografie sulla mensola per vedere se ci fosse qualcosa che valesse la pena prendere, quando la colpì il fatto che in ogni sua foto lei era insieme alla famiglia di Ben. Al compleanno della nipote di Ben, al matrimonio della sorella di Ben. Non c’era una sola fotografia di lei con sua mamma, l’unica persona della famiglia di Emily, e tanto meno di Ben con loro due. D’un tratto fu colpita dal fatto che era una straniera nella sua stessa vita. Aveva seguito la strada di qualcun altro per anni invece di costruirsi la sua.

Prese d’assalto l’appartamento e finì in bagno. Qui c’erano le sole cose di cui a lei importava davvero – i suoi prodotti per il bagno e i trucchi. Ma anche questi costituivano un problema per Ben. Si era sempre lamentato di quanti prodotti avesse, rammaricandosi per lo spreco di soldi.

“Sono i miei soldi che spreco!” urlò Emily al suo riflesso nello specchio buttando tutti i suoi averi in una capiente borsa.

Sapeva di avere l’aria di una pazza, a sfrecciare su e giù così per il bagno gettando bottiglie mezze vuote di shampoo nella borsa, ma non le importava. La sua vita con Ben era stata solo una bugia, e voleva uscirne il più presto possibile.

Poi corse nella camera accanto e afferrò la sua valigia da sotto il letto. La riempì velocemente con tutti i vestiti e le scarpe. Finito di raccogliere le sue cose, portò tutto fuori in strada. Poi, come gesto simbolico finale, tornò nell’appartamento e pose la sua chiave sul tavolino da caffè “sentimentale” di Ben, poi uscì, per non tornare mai più.

Fu solo lì in piedi sul cordolo del marciapiede che Emily prese coscienza di ciò che aveva fatto. Aveva perso il lavoro e la casa nello giro di poche ore. Diventare single era una cosa, ma perdere tutta la sua vita era decisamente un’altra.

Piccoli palpiti di panico cominciarono a percorrerla. Le mani le tremavano mentre tirava fuori il cellulare e componeva il numero di Amy.

“Ehi, che c’è?” chiese Amy.

“Ho fatto una cosa stupida,” rispose Emily.

“Dimmi…” la sollecitò a continuare Amy.

“Ho lasciato il lavoro.”

Sentì Amy sospirare dall’altra parte della cornetta.

“Oh, grazie a Dio,” disse la voce della sua amica. “Pensavo che mi avresti detto di essere tornata con Ben.”

“No, no, tutto il contrario. Ho fatto le valigie e ho lasciato la casa. Sto qui per la strada come una barbona.”

Amy cominciò a ridere. “Mi hai dipinto proprio una bella scena.”

“Non è divertente!” replicò Emily, più spaventata che mai. “Cosa faccio adesso? Ho lasciato il lavoro. Non riuscirò a trovare un appartamento senza un lavoro!”

“Devi ammettere che un po’ divertente lo è,” rispose Amy sogghignando. “Porta tutto qui,” aggiunse con nonchalance. “Lo sai che puoi restare da me finché non sistemi le cose.”

Ma Emily non voleva. Praticamente aveva trascorso anni della sua vita vivendo in casa di qualcun altro, costretta a sentirsi un’ospite nella sua stessa casa, come se Ben le stesse facendo un favore ad averla intorno. Non voleva più vivere così. Aveva bisogno di costruirsi la sua vita, di stare in piedi da sola.

“Apprezzo l’offerta,” disse Emily, “ma devo occuparmi di me stessa per un po’.”

“Lo capisco,” rispose Amy. “E allora che fai? Lasci la città per un po’? Ti schiarisci le idee?”

Le fece venire in mente una cosa. Il padre di Emily aveva una casa nel Maine. Ci avevano trascorso le estati quando lei era piccola, ma era rimasta vuota da quando vent’anni prima era scomparso. Era vecchia, decisamente particolare, ed era stata fantastica a un certo punto, in una specie di modo storico; era più come un contorto Bed and Breakfast di cui suo padre non sapeva che farnese, che una casa.

All’epoca aveva un’aria appena passabile, ed Emily sapeva che non sarebbe stata presa bene adesso, dopo vent’anni di abbandono; e non le avrebbe dato la stessa sensazione di vuoto – non ora che non era più una bambina. Senza pensare che non si era proprio in estate. Era febbraio!

Eppure l’idea di trascorrere qualche giorno seduta sul portico, a guardare l’oceano, in un luogo che era suo (più o meno) all’improvviso le sembrò molto romantica. Lasciare New York per il weekend sarebbe stato un buon modo per chiarirsi le idee e cercare di decidere cosa fare dopo.

“Devo andare,” disse Emily.

“Aspetta,” rispose Amy. “Prima dimmi dove vai!”

Emily fece un respiro profondo.

“Vado nel Maine.”




CAPITOLO TRE


Emily dovette prendere molte metropolitane per raggiungere il parcheggio a lungo termine a Long Island City dove si trovava la sua vecchia, abbandonata e malconcia auto. Erano passati anni da quando l’aveva guidata, perché Ben aveva sempre preso su di sé tutte le responsabilità dell’autista per esibire la sua preziosa Lexus, e mentre Emily attraversava a piedi l’enorme parcheggio pieno di ombre, trascinando la valigia dietro di sé, si chiedeva se fosse ancora in grado di guidare. Era un’altra di quelle cose che si era lasciata scivolare via nel corso della sua relazione.

Già il viaggio per arrivare lì – a quel parcheggio nei sobborghi della città – era sembrato infinito. Mentre si avvicinava alla macchina, mentre i suoi passi riecheggiavano nel parcheggio freddo, si sentiva quasi troppo stanca per andare avanti.

Stava commettendo un errore? si chiese. Sarebbe dovuta tornare indietro?

“Eccola.”

Emily si voltò e vide l’addetto al garage che sorrideva alla sua auto malconcia, sembrava con pietà. Allungò un braccio e le porse le chiavi.

Il pensiero di avere ancora otto ore di viaggio davanti era soverchiante, impossibile. Era giГ  esausta, fisicamente ed emotivamente.

“Ha intenzione di prenderle?” chiese l’uomo alla fine.

Emily sbatté le palpebre, non rendendosi conto di aver avuto la testa da un’altra parte.

Se ne stava lì, in piedi, sapendo che quello era un momento decisivo, per certi versi. Sarebbe crollata, sarebbe tornata di corsa alla sua vecchia vita?

O sarebbe stata abbastanza forte da andare avanti?

Emily alla fine si riscosse dai pensieri inquietanti e si costrinse a essere forte. Almeno per adesso.

Prese le chiavi e si avviò trionfante verso la macchina, cercando di mostrare coraggio e fiducia in se stessa mentre si allontanava, ma segretamente innervosita dall’idea che l’auto non sarebbe neanche partita – e che se anche l’avesse fatto, lei non si sarebbe neanche ricordata come guidare.

Sedette nell’auto fredda, chiuse gli occhi e accese il motore. Se partiva, si disse, era un segno. Se non partiva, poteva tornare indietro.

Odiava ammetterlo con se stessa, ma segretamente sperava che non partisse.

GirГІ la chiave.

Partì.



*



Fu una bellissima sorpresa e un conforto per Emily vedere che, pure in modo un po’ bizzarro, conosceva ancora le basi della guida. Tutto quello che doveva fare era dare gas e guidare.

Era liberatorio guardare il mondo sfrecciarle accanto, e lentamente si riscosse dal cattivo umore. Accese perfino la radio, ricordandosene.

Con la radio che faceva chiasso, i finestrini giù, Emily stringeva il volante forte tra le mani. Nella mente si vedeva come un’affascinante sirena dei film in bianco e nero degli anni Quaranta, con il vento che le scompigliava la perfetta messa in piega. In realtà, la gelida aria di febbraio le aveva colorato il naso di rosso bacca e le aveva increspato i capelli.

Presto uscì dalla città, e più a nord andava più le strade erano costeggiate da sempreverdi. Si prese il tempo di ammirarne la bellezza mentre le superava. Quanto era stato facile farsi prendere dalla frenesia e dal trambusto della vita di città. Per quanti anni era scivolata in avanti senza fermarsi davvero ad ammirare la bellezza della natura?

Ben presto le strade si allargarono, il numero di corsie aumentò, ed eccola in autostrada. Accelerò, spingendo il suo macinino ad andare più veloce, sentendosi viva e rapita dalla velocità. Tutte quelle persone nelle loro auto che partivano per viaggi da qualche altra parte, e lei, Emily, che alla fine era una di loro. L’eccitazione le batteva dentro mentre faceva correre la macchina in avanti, aumentando la velocità fino a quanto osava.

La fiducia in se stessa si librava a mano a mano che le gomme mangiavano le strade. Quanto superò il confine di stato con il Connecticut, aveva davvero raggiunto l’obiettivo di andarsene. Il lavoro, Ben, si era finalmente liberata di tutto quel bagaglio.

Più a nord andava più faceva freddo, ed Emily alla fine dovette ammettere che era troppo freddo per tenere i finestrini aperti. Li chiuse e si strofinò le mani, desiderando di avere addosso qualcosa di più appropriato per il tempo. Aveva lasciato New York in uno scomodo completo, e in un altro momento di impulsività aveva scagliato la giacca aderente e le scarpe con tacco a spillo fuori dalla finestra. Adesso indossava solo una camicetta e le dita dei piedi nudi sembravano essersi tramutate in blocchi di ghiaccio. L’immagine della star del cinema degli anni Quaranta andò in pezzi quando guardò il suo riflesso sullo specchietto retrovisore. Era un disastro. Ma non le importava. Era libera, e quello era tutto ciò che contava.

Passarono ore, e prima che se ne rendesse conto si era lasciata alle spalle il Connecticut, che era ormai un ricordo passato, solo un luogo che aveva attraversato sulla sua strada verso un futuro migliore. Il paesaggio del Massachusetts era più aperto. Invece del fogliame verde scuro dei sempreverdi, gli alberi ora avevano cambiato le foglie estive e svettavano come scheletri allampanati su ogni lato, rivelando accenni di neve e di ghiaccio sul terreno duro ai loro piedi. Sopra Emily il cielo cominciò a cambiare colore, dall’azzurro al grigio umido, ricordandole che sarebbe stato buio quando avrebbe raggiunto il Maine.

Attraversò Worcester, molte case erano alte, rivestite di pannelli di legno e dipinte di varie tonalità pastello. Emily non poteva fare a meno di pensare alle persone che vivevano lì, di porsi domande sulle loro vite e sulle loro esperienze. Era solo a poche ore da casa ma già tutto le sembrava alieno – tutte le possibilità, tutti i diversi posti dove vivere ed essere e da visitare. Come aveva fatto a trascorrere sette anni vivendo un’unica versione della vita, continuando la vecchia e familiare routine, ripentendo la stessa giornata all’infinito, aspettando, aspettando, aspettando qualcosa di più. Per tutto quel tempo aveva aspettato che Ben crescesse in modo che lei potesse dare inizio al nuovo capitolo della sua vita. Ma per tutto quel tempo, lei stessa aveva avuto il potere di essere la forza motrice della sua storia.

Si trovò ad attraversare un ponte, seguendo la Route 290 che diventava la Route 495. Erano scomparsi gli alberi di cui meravigliarsi, rimpiazzati adesso da rocce scoscese. Lo stomaco si mise a brontolare, ricordandole che l’ora di pranzo era arrivata e passata e che lei non se ne era preoccupata. Pensò di fermarsi a un autogrill ma l’impulso di raggiungere il Maine era troppo grande. Poteva mangiare una volta arrivata là.

Passarono altre ore, e attraversò il confine per il New Hampshire. Il cielo si aprì, le strade erano ampie e numerose, le pianure si distendevano su ogni lato fin dove poteva vedere. Emily non riusciva a fare a meno di pensare solo a quanto grande fosse il mondo, a quante persone contenesse in realtà.

L’ottimismo la portò fino dopo Portsmouth, dove gli aeroplani scendevano in picchiata oltre la sua testa, con i motori che rombavano mentre si avvicinavano alla pista di atterraggio. Accelerò, superò il paese successivo dove le gelate coprivano le banchine su ogni lato dell’autostrada, poi avanti attraverso Portland, dove la strada correva a lato della ferrovia. Emily colse ogni dettaglio, sbalordita dalla grandezza del mondo.

Corse lungo il ponte che portava fuori Portland, desiderando disperatamente di fermare la macchina e godere della vista dell’oceano. Ma il cielo si stava facendo scuro e sapeva di doversi muovere se voleva raggiungere Sunset Harbor prima della mezzanotte. Erano almeno altre tre ore di viaggio da lì, e l’orologio sul cruscotto segnava già le 21. Lo stomaco protestò di nuovo, rimproverandola per aver saltato la cena, oltre che il pranzo.

Tra tutte le cose che non vedeva l’ora di fare una volta arrivata alla casa, la prima era dormire per tutta la notte. La stanchezza cominciava a farsi sentire; il divano di Amy non era stato particolarmente comodo, per non parlare del subbuglio emotivo che l’aveva tormentata tutta la notte. Ma ad aspettare Emily nella casa di Sunset Harbor c’era il bellissimo letto a baldacchino di quercia scura che si trovava nella camera matrimoniale, quello che i suoi genitori avevano condiviso in tempi più felici. Il pensiero di averlo tutto per sé la spronava ad andare avanti.

Sebbene il cielo minacciasse neve, Emily decise di uscire dall’autostrada fino a Sunset Harbor. Suo padre adorava guidare lungo la strada meno frequentata – una serie di ponti che scavalcavano la miriade di fiumi che scorrevano fin nell’oceano in quella parte del Maine.

Lasciò l’autostrada, sollevata almeno di rallentare. Le strade sembravano più pericolose, ma il panorama era stupendo. Emily fissava le stelle che occhieggiavano sull’acqua chiara e scintillante.

Restò sulla Route 1 lungo la costa, aprendo la mente alla bellezza che le offriva. Il cielo passò dal grigio al nero, e l’acqua ne rifletteva l’immagine. Le sembrava di guidare attraverso lo spazio, puntando all’infinito.

Puntando all’inizio del resto della sua vita.



*



Sfinita dal viaggio lunghissimo, sforzandosi di tenere gli occhi infiammati aperti, si riprese quando i fanali illuminarono finalmente un cartello che le diceva che stava entrando a Sunset Harbor. Il cuore le battГ© piГ№ veloce di sollievo e dalla trepidazione.

Oltrepassò il piccolo aeroporto e guidò sul ponte che l’avrebbe condotta a Mount Desert Island, ricordando, con una stretta di nostalgia, di quando si trovava nella macchina di famiglia mentre attraversava questo stesso ponte. Sapeva che si trovava solo a dieci miglia dalla casa, che le ci sarebbero voluti non più di venti minuti per raggiungere la destinazione. Il cuore si mise a martellare dall’agitazione. La stanchezza e la fame sembrarono sparire.

Vide il piccolo cartello di legno che le dava il benvenuto a Sunset Harbor e sorrise a se stessa. Alti alberi costeggiavano entrambi i lati della carreggiata, ed Emily si sentì confortata dal sapere che erano gli stessi che guardava da bambina quando suo padre guidava lungo questa stessa strada.

Pochi minuti dopo attraversò un ponte su cui ricordava di aver passeggiato da bambina in una bellissima sera d’autunno, con le foglie rosse che scricchiolavano sotto le scarpe. L’immagine era così vivida che riusciva anche a vedere le muffole di lana viola che indossava mentre si teneva per mano con suo padre. Non doveva aver avuto più di cinque anni all’epoca, ma il ricordo la colpì tanto chiaramente che sembrava essere stato ieri.

Le vennero in mente altri ricordi a mano a mano che vedeva altre cose – il ristorante che serviva pancake fantastici, il campeggio pieno di scout per tutta l’estate, la stradina a una corsia che portava a Salisbury Cove. Quando raggiunse il cartello per l’Acadia National Park sorrise, sapendo che era a sole due miglia dalla sua destinazione. Sembrava che avrebbe raggiunto la casa al momento opportuno; la neve stava cominciando a cadere adesso e il suo macinino probabilmente non sarebbe resistito a una bufera.

Ed ecco che la macchina si mise a fare uno strano rumore stridulo da sotto al cofano. Emily si morse il labbro dall’ansia. Ben era sempre stato quello pratico dei due, il riparatore della relazione. Le capacità meccaniche di Emily erano miserevoli. Pregò che la macchina reggesse per l’ultimo miglio.

Ma lo stridio peggiorava, e presto fu accompagnato da uno strano ronzio, poi da un click irritante, e alla fine da un rantolo. Emily chiuse forte i pugni attorno al volante e lanciò un’imprecazione sottovoce. La neve cominciò a cadere più veloce e più fitta, e la macchina si mise a lamentarsi anche di più, prima di crepitare e alla fine morire.

Ascoltando il sibilo del motore a terra, Emily sedeva lì impotente, cercando di capire cosa fare. L’orologio le disse che era mezzanotte. Non c’erano altre auto, nessuno fuori a quell’ora di notte. C’era un silenzio di morte e, senza la luce dei fanali, un buio spettacolare; non c’erano lampioni lungo quella strada e le nuvole coprivano le stelle e la luna. Era inquietante, ed Emily pensava che fosse l’ambientazione ideale per un film horror.

Afferrò il telefono come se potesse risolvere il problema, ma vide che non c’era campo. La vista delle cinque barre vuote la fece preoccupare ancora di più, facendola sentire ancora più sola e isolata. Per la prima volta da quando si era lasciata la sua vita alle spalle, Emily cominciò a pensare di aver preso una decisione terribilmente stupida.

Uscì dall’auto e rabbrividì quando l’aria fredda di neve le giunse alla carne. Fece il giro del bagagliaio e diede un’occhiata al motore, non sapendo neanche che cosa cercare esattamente.

Proprio allora sentì il rombo di un furgone. Il cuore le balzò dal sollievo mentre guardava lontano e le parve di distinguere due fanali che avanzavano lentamente lungo la strada verso di lei. Agitò le mani, facendo segno al furgone di fermarsi mentre si avvicinava.

Fortunatamente accostò, fermandosi appena dietro di lei, esalando i gas di scarico nell’aria fredda, le luci penetranti che illuminavano i fiocchi di neve che cadevano.

La portiera del guidatore scricchiolò mentre si apriva, e due piedi avvolti in pesanti stivali scricchiolarono sulla neve. Emily riusciva a vedere solo la silhouette della persona davanti a lei e all’improvviso provò il terrore di essersi imbattuta nell’assassino locale.

“È finita nei guai, eh?” sentì la voce rauca di un anziano.

Emily si massaggiava le braccia, sentendo la pelle d’oca sotto la camicia, cercando di smettere di tremare – ma fu sollevata che si trattasse di un vecchio.

“Sì, non so cosa sia successo,” disse. “Ha cominciato a fare rumori strani e poi si è fermata.”

L’uomo si avvicinò, e il viso fu finalmente illuminato dalle luci del furgone. Era molto vecchio, con ispidi capelli bianchi su una faccia piena di rughe. Gli occhi erano scuri ma scintillarono di curiosità guardando prima Emily e poi la macchina.

“Non sa come sia successo?” chiese, trattenendo una risata. “Glielo dico io cos’è successo. Quella macchina non è altro che un ammasso di ciarpame. Sono stupito che sia riuscita ad arrivare qui, più che altro! Mi pare che non l’abbia mantenuta in gran forma, e che poi l’abbia portata fuori con la neve, mi sbaglio?”

Emily non era dell’umore giusto per farsi prendere in giro, specialmente dato che sapeva che il vecchio aveva ragione.

“A dire il vero, arrivo da New York. La macchina ha retto bene per otto ore,” rispose, fallendo nel tentativo di non suonare secca.

Il vecchio fischiò sotto i baffi. “New York? Be’, non avrei mai… Cosa la porta fin qui?”

Emily non aveva voglia di raccontare la sua storia, così rispose semplicemente, “Sono diretta a Sunset Harbor.”

L’uomo non le fece altre domande. Emily rimase lì in piedi a guardarlo, e le dita le divennero presto insensibili mentre aspettava che le offrisse un qualche tipo di aiuto. Ma lui sembrava più interessato a girare intorno alla sua vecchia macchina arrugginita, a calciare le gomme con la punta degli stivali, a grattare via il colore della carrozzeria con l’unghia del pollice, dicendo “bleah” e scuotendo la testa. Aprì il cofano ed esaminò il motore per un lunghissimo momento, borbottando sottovoce di tanto in tanto.

“Quindi?” disse Emily alla fine, esasperata dalla sua lentezza. “Cos’ha che non va?”

La guardò al di sopra del cofano, quasi sorpreso, come se avesse dimenticato che lei era lì, e si grattò la testa. “È scassata.”

“Questo lo so,” disse Emily, con impazienza. “Ma può fare qualcosa per sistemarla?”

“Oh no,” rispose l’uomo, ridendo sommessamente. “Proprio niente.”

Emily ebbe voglia di urlare. La mancanza di cibo e la stanchezza causata dal lungo viaggio stavano cominciando a farsi sentire, portandola sull’orlo delle lacrime. Tutto quello che voleva era arrivare alla casa per poter dormire.

“Che cosa posso fare?” chiese, disperata.

“Be’, ha due opzioni,” rispose il vecchio. “Raggiungere a piedi il meccanico, che è a un miglio circa da qui, da quella parte.” Indicò la strada da cui Emily era arrivata con un dito tozzo e grinzoso. “Oppure potrei portare lei e la macchina col rimorchio dove stava andando.”

“Lo farebbe?” chiese Emily, sorpresa dalla sua gentilezza, qualcosa a cui non era abituata avendo vissuto a New York così a lungo.

“Certo,” rispose l’uomo. “Non ho intenzione di lasciarla qui fuori a mezzanotte durante una tempesta di neve. Ho sentito che peggiorerà nella prossima ora. Dov’è esattamente che sta andando?”

Emily era sopraffatta dalla gratitudine. “West Street. Numero quindici.”

L’uomo reclinò la testa da un lato con curiosità. “Al quindici di West Street? Quella vecchia casa malconcia?”

“Sì,” rispose Emily. “Appartiene alla mia famiglia. Avevo bisogno di trascorrere un po’ di tempo in tranquillità, sola con me stessa.”

Il vecchio scosse la testa. “Non posso lasciarla là. La casa sta andando a pezzi. Dubito anche che tenga l’acqua fuori. Perché non viene da me? Abitiamo sopra al negozio di alimentari, io e mia moglie, Bertha. Saremmo felici di avere un’ospite.”

“È molto gentile da parte sua,” disse Emily. “Ma voglio davvero stare sola al momento. Quindi se potesse portarmi in West Street lo apprezzerei davvero tanto.”

Il vecchio la osservò per un momento, poi alla fine cedette. “D’accordo, signorina. Se insiste.”

Emily provГІ sollievo vedendolo tornare nel furgone e spostarlo davanti alla sua macchina. Lo guardГІ prendere una spessa corda dal furgone e legare i due veicoli.

“Vuole salire con me?” chiese. “Almeno ho il riscaldamento.”

Emily fece un debole sorriso e scosse la testa. “Preferirei…”

“Restare sola,” il vecchio finì la frase con lei. “Capisco. Capisco.”

Emily tornò in auto, chiedendosi che tipo di impressione avesse fatto sul vecchio. Doveva pensare che fosse un po’ pazza, a presentarsi qui impreparata e troppo poco vestita a mezzanotte mentre stava per scatenarsi una bufera di neve, pretendendo di essere portata a una casa abbandonata e malconcia in modo da rimanere completamente sola.

Il furgone davanti a lei prese vita e lei sentì la spinta quando la macchina venne trascinata. Si appoggiò al sedile e osservò fuori dal finestrino mentre si muovevano.

La strada che la accompagnò per le ultime due miglia fiancheggiava il parco nazionale da un lato e l’oceano dall’altro. Attraverso il buio e la coltre di neve che cadeva, Emily riusciva a vedere l’oceano e le onde che si infrangevano sugli scogli. Poi l’oceano sparì dalla vista quando entrarono in città, superarono hotel e motel, agenzie che organizzavano escursioni in barca e campi da golf, aree più urbanizzate, sebbene per Emily fosse difficile vederle urbanizzate in confronto a New York.

Poi svoltarono in West Street e il cuore di Emily barcollò mentre superavano la grande casa d’angolo di mattoni rossi coperta di edera. Sembrava proprio la stessa dell’ultima volta che era stata lì, vent’anni prima. Superò la casa blu, la casa gialla, la casa bianca, e poi si morse il labbro sapendo che la prossima sarebbe stata la sua, la casa in pietra grigia.

Quando apparve davanti a lei, Emily venne invasa da uno schiacciante senso di nostalgia. L’ultima volta che era stata lì aveva quindici anni, il suo corpo scoppiava per via degli ormoni all’idea di una romantica estate. Non ne aveva mai avuta una, ma il ricordo dell’eccitazione data dalla possibilità la colpì come un’ondata.

Il furgone si fermò, e così fece anche la macchina di Emily.

Prima che le ruote avessero smesso di girare, Emily era fuori, senza fiato davanti alla casa che una volta era stata di suo padre. Le tremavano le gambe e non sapeva se fosse per il sollievo di essere finalmente arrivata o per l’emozione di essere tornata lì dopo tanti anni. Ma dove le altre case della strada sembravano identiche, quella di suo padre era l’ombra della sua gloria passata. Le persiane una volta bianche delle finestre ora erano strisciate di sudiciume. Quando una volta erano aperte ora erano tutte chiuse, dando alla casa un’aria molto meno invitante di un tempo. L’erba del vasto prato di fronte dove Emily aveva trascorso gli infiniti giorni estivi leggendo romanzi era incredibilmente ben tenuto, e i piccoli arbusti ai due lati della porta principale erano stati potati. Ma la casa; Emily adesso capiva l’espressione confusa del vecchio quando gli aveva detto che stava andando lì. Sembrava così abbandonata, così non amata, in sfacelo. La rese infelice vedere quanto la bellissima vecchia casa era decaduta negli anni.

“Casa carina,” disse il vecchio avvicinandosi a Emily.

“Grazie,” rispose, quasi in trance, con gli occhi fissi al vecchio edificio. La neve le fluttuava intorno. “E grazie per avermi portata qui tutta intera,” aggiunse.

“Si figuri,” rispose il vecchio. “È davvero sicura di voler passare la notte qui?”

“Sono sicura,” rispose Emily, nonostante stesse davvero cominciando a temere che venire lì fosse stato un grosso errore.

“Lasci che l’aiuti con i bagagli,” disse l’uomo.

“No, no,” rispose Emily. “Sinceramente, ha già fatto abbastanza. Posso fare da sola adesso.” Frugò nella tasca e trovò una banconota spiegazzata. “Ecco, per la benzina.”

L’uomo guardò la banconota e poi lei. “Non la voglio,” disse, sorridendo gentile. “Tenga i soldi. Se vuole davvero sdebitarsi, perché non viene un po’ da me e Bertha durante il suo soggiorno qui per un caffè e una fetta di dolce?”

Emily sentì un grumo in gola mentre nascondeva la banconota nella tasca. La gentilezza di quest’uomo era scioccante dopo l’ostilità di New York.

“Per quanto ha in programma di rimanere, comunque?” aggiunse allungandole un pezzetto di carta con scarabocchiati su un numero di telefono e un indirizzo.

“Solo per il weekend,” rispose Emily, prendendo la carta.

“Be’, se avesse bisogno di qualcosa, faccia una telefonata. O venga alla pompa di benzina dove lavoro. È vicino al negozio di alimentari. Ci troverà facilmente.”

“Grazie,” disse di nuovo Emily, con tutta la sincera gratitudine di cui era capace.

Non appena il chiasso del motore fu svanito nel nulla, la quiete scese di nuovo ed Emily sentì un improvviso senso di pace. La neve cadeva anche più fitta adesso, facendo del mondo un posto silenzioso come il silenzio stesso.

Emily tornò alla macchina e raccolse la sua roba, poi si incamminò sulla via con la pesante valigia in braccio, sentendo l’emozione gonfiarle il petto. Quando raggiunse il portone principale si fermò, esaminando il familiare pomello logoro, ricordando la sua mano che lo girava centinaia di volte. Forse venire qui era stata una buona idea, dopo tutto. Stranamente, non riusciva a fare a meno di sentire che si trovava esattamente nel posto in cui doveva essere.



*



Emily se ne stava in piedi nell’offuscato vestibolo della vecchia casa di suo padre, con la polvere che le vorticava intorno, sperando stupidamente in un po’ di calore ma massaggiandosi le spalle dal freddo. Non sapeva che cosa le fosse saltato in mente. Si era davvero aspettata che quella vecchia casa, trascurata per vent’anni, la accogliesse riscaldata?

Provò l’interruttore e scoprì che non accadeva nulla.

Ma certo, pensГІ. Quanto stupida poteva essere? Si aspettava che ci fosse la corrente?

Non le era neanche venuto in mente di portare una pila. Si rimproverГІ. Come al solito era stata troppo avventata e non si era fermata un minuto per organizzare un piano.

Ripose la valigia giГ№ e poi andГІ avanti, le assi del pavimento che le scricchiolavano sotto i piedi; fece scorrere le dita lungo la tappezzeria a ghirigori proprio come faceva da bambina. Poteva persino vedere le macchie che aveva lasciato negli anni con quello stesso movimento. SuperГІ la scala, una lunga e amplia serie di gradini in legno scuro. Mancava parte del corrimano ma non poteva importargliene di meno. Essere tornata nella casa la faceva sentire molto piГ№ che ristorata.

ProvГІ un altro interruttore per abitudine, ma non ebbe fortuna neanche questa volta. Poi raggiunse la porta alla fine del corridoio, che portava in cucina, e la spinse.

Ansimò quando un soffio di aria fredda la colpì. Entrò, il pavimento in marmo della cucina era ghiaccio sotto ai suoi piedi scalzi.

Emily cercò di far scorrere l’acqua dai rubinetti dell’acquaio ma non accadde niente. Si mangiò il labbro dalla costernazione. Niente riscaldamento, niente elettricità, niente acqua. Che altro aveva la casa in serbo per lei?

Camminò nella casa, cercando interruttori o leve che potessero controllare l’acqua, il gas e l’elettricità. Nell’armadietto sotto alle scale trovò un quadro elettrico, ma azionarne gli interruttori non servì a nulla. La caldaia, ricordò, si trovava giù in cantina – ma l’idea di scendere senza un po’ di luce a mostrarle la strada le metteva ansia. Aveva bisogno di una pila o di una candela, ma sapeva che nella casa abbandonata non ci sarebbe stato niente del genere. Eppure controllò i cassetti della cucina, per sicurezza – ma erano pieni solo di posate.

Nel petto cominciГІ a palpitarle il panico, ed Emily si fermГІ a riflettere. RiportГІ la mente al periodo che lei e la sua famiglia avevano trascorso nella casa. RicordГІ il modo in cui suo padre usava il gasolio per sprigionare calore nella casa durante i mesi invernali. Faceva impazzire sua madre perchГ© era davvero costoso e lei pensava che scaldare una casa vuota fosse uno spreco di soldi. Ma il padre di Emily insisteva che la casa dovesse essere mantenuta calda per salvaguardarne le tubature.

Emily capì di aver bisogno di trovare del gasolio se voleva scaldare la casa. Ma senza campo sul telefono, non aveva idea di come farlo.

D’un tratto, qualcuno bussò alla porta. Era un bussare pesante, fermo e ponderato, che faceva l’eco lungo i corridoi vuoti.

Emily raggelò, sentendo un’improvvisa trepidazione nel petto. Chi poteva essere, a quell’ora, con quella neve?

Lasciò la cucina e calpestò con passo felpato le assi del pavimento attraverso tutto l’ingresso, così silenziosa a piedi nudi. Posò la mano sulla maniglia, e dopo un secondo di esitazione si ricompose e aprì la porta.

Di fronte a lei, in una giacca di plaid e con i capelli neri lunghi fino alla mascella vivacizzati dai fiocchi di neve, c’era un uomo che Emily non poteva fare a meno di pensare somigliasse a un tagliaboschi, o al cacciatore di Cappuccetto Rosso. Non era il suo tipo, ma c’era sicuramente della bellezza nei suoi occhi freddi e blu, nella barba corta che gli incorniciava il mento ben definito, ed Emily rimase scioccata dalla forza attrattiva che provava nei suoi confronti.

“Posso aiutarla?” chiese.

L’uomo le diede una rapida occhiata, come misurandola. “Sono Daniel,” rispose. Allungò la mano perché gliela stringesse. Lei la prese, notando la sensazione della pelle ruvida delle sue mani. “Lei chi è?”

“Emily,” rispose, improvvisamente consapevole del battito del suo cuore. “Questa casa appartiene a mio padre. Sono venuta qui per il weekend.”

Lo sguardo di Daniel si intensificò. “Il proprietario non viene qui da vent’anni. Ha il permesso di venire qui?”

Il tono era ruvido, leggermente ostile, ed Emily indietreggiГІ.

“No,” disse goffa, un po’ a disagio che le fosse stata ricordata la più dolorosa esperienza della sua vita – la scomparsa di suo padre – mentre veniva sorpresa dalla scontrosità di Daniel. “Ma ho avuto il beneplacito di andare e venire come mi pare. E a lei poi cosa importa?” Adattò il tono a quello ruvido di lui.

“Sono il custode,” rispose. “Vivo nell’ex rimessa delle carrozze su questo terreno.”

“Lei vive qui?” urlò Emily, e la sua idea di un weekend di pace nella vecchia casa di suo padre le andò in pezzi davanti agli occhi. “Ma volevo restare sola questo weekend.”

“Sì, be’, anch’io,” rispose Daniel. “Non sono abituato alla gente che si presenta senza invito.” Le guardò oltre la spalla son sospetto. “E che danneggia la proprietà.”

Emily incrociò le braccia. “Che cosa le fa pensare che abbia danneggiato la proprietà?”

Daniel alzò un sopracciglio in risposta. “Be’, a meno che non stesse pensando di starsene seduta qui al freddo e al buio per tutto il weekend, immagino che qualche danno lo abbia fatto. Accendere la caldaia. Drenare i tubi. Quella roba là.”

La scontrosità di Emily lasciò il posto all’imbarazzo. Arrossì.

“Non è riuscita ad accendere la caldaia, vero?” disse Daniel. C’era un ironico sorriso sulle labbra che diceva a Emily che era quasi divertito dalla situazione.

“Non ne ho ancora avuto il tempo,” rispose in modo arrogante, cercando di salvare la faccia.

“Vuole che le mostri come si fa?” le chiese, quasi pigramente, come se farlo gli fosse indifferente.

“Lo farebbe?” chiese Emily, un po’ scioccata e confusa che le avesse offerto il suo aiuto.

Lui avanzò di un passo sul tappetino di benvenuto. Fiocchi di neve si alzarono dalla sua giacca, creando una piccola tempesta di neve nell’ingresso.

“Preferirei farlo io, piuttosto che vederla rompere qualcosa,” disse come spiegazione, con un’alzata di spalle.

Emily notГІ che la neve che cadeva fuori dal portone aperto si era trasformata in una specie di bufera. Per quanto non volesse ammetterlo, era molto piГ№ che grata che Daniel si fosse fatto vivo in quel momento. Altrimenti probabilmente sarebbe morta congelata durante la notte.

Chiuse la porta e i due percorsero il corridoio fino alla porta della cantina. Daniel si era preparato. Tirò fuori una pila, illuminando le scale che scendevano. Emily lo seguì dabbasso, un po’ spaventata dal buio e dalle ragnatele mentre scendevano nelle tenebre. Aveva avuto terrore della vecchia cantina da piccola, e raramente si era avventurata laggiù. Il luogo era pieno di vecchi macchinari e aggeggi che facevano funzionare la casa. La loro vista la schiacciò e fece sì che si chiedesse ancora una volta se venire lì fosse stato un errore.

Per fortuna, Daniel accese la caldaia in pochi secondi, come se fosse la cosa più semplice del mondo. Emily non poté fare a meno di sentirsi un po’ disturbata dal fatto di aver avuto bisogno di un uomo quando la sola ragione per cui era venuta qui era innanzitutto riguadagnarsi la sua indipendenza. Capì che nonostante la forte sensualità di Daniel e l’innegabile attrazione che provava nei suoi confronti, doveva andarsene al più presto. Sarebbe stato difficile intraprendere un viaggio alla scoperta di se stessa con lui lì dentro. Averlo nella sua terra era un problema sufficiente.

Finito con la caldaia, lasciarono entrambi la cantina. Emily fu sollevata di trovarsi fuori da quel luogo umido e ammuffito e di trovarsi di nuovo nella zona principale della casa. Seguì Daniel mentre attraversava l’ingresso fino alla dispensa dietro alla cucina. Si mise subito a lavorare per drenare le tubature.

“Sa come scaldare la casa per tutto l’inverno?” le chiese da sotto il piano di lavoro. “Perché altrimenti congeleranno.”

“Resto solo per il weekend,” rispose Emily.

Daniel si trascinò fuori dal banco e sedette, i capelli increspati alti sulla testa. “Non deve incasinare una casa così vecchia,” disse, scuotendo la testa.

Ma sistemò comunque l’acqua.

“Allora dov’è il caldo?” chiese Emily non appena ebbe finito. Faceva ancora freddissimo, nonostante la caldaia fosse accesa e i tubi ormai sbloccati. Si massaggiò le braccia per agevolare la circolazione.

Daniel rise, pulendosi le mani sporche con un asciugamano. “Non è che comincia a funzionare così, per miracolo, sa. Deve farsi portare il gasolio. Tutto quello che potevo fare era accenderla.”

Emily sospirò di frustrazione. Quindi Daniel non era poi quel cavaliere dall’armatura scintillante che aveva pensato che fosse.

“Ecco,” disse Daniel allungandole un biglietto da visita. “Quello è il numero di Eric. Glielo porterà lui.”

“Grazie,” borbottò. “Ma non credo che arriverà fin qui.”

PensГІ al suo telefonino, alle barre vuote, e si ricordГІ di quanto assolutamente sola fosse.

“C’è un telefono a pagamento alla fine della strada,” disse Daniel. “Ma io non rischierei di andar lì nel bel mezzo di una bufera. E comunque ora saranno chiusi.”

“Certo,” borbottò Emily, sentendosi frustrata e completamente disorientata.

Daniel doveva aver notato che Emily era seccata e che si sentiva avvilita. “Posso accenderle un fuoco,” si offrì, facendo un cenno con la testa in direzione del salotto. Le sopracciglia si sollevarono con un’aria di attesa, quasi timidamente, dandogli improvvisamente l’aspetto di un bambino.

Emily voleva protestare, dirgli di lasciarla sola nella gelida casa perché era il minimo che si meritava, ma qualcosa dentro di lei la fece esitare. Forse era il fatto che avere Daniel in casa la faceva sentire d’un tratto meno sola, meno tagliata fuori dalla civiltà. Non si era aspettata di non avere telefono, nessuna possibilità di comunicare con Amy, e la realtà di trascorrere la sua prima notte da sola nella casa fredda e buia era spaventosa.

Daniel doveva aver colto la sua esitazione, perché uscì a grandi passi dalla stanza prima che lei avesse il tempo di aprire la bocca e dire qualcosa.

Lei lo seguì, silenziosamente grata che fosse stato in gradi di leggerle la solitudine negli occhi e che si fosse offerto di rimanere, anche se in veste di addetto al fuoco. Trovò Daniel nel soggiorno, occupato a costruire un’ordinata pila di frasche, braci e legna nel caminetto. Venne colpita improvvisamente da un ricordo del padre, accucciato davanti al caminetto che con mani esperte accendeva fuochi, con tanta cura e tanto tempo come chi stia creando un’opera d’arte. Lei lo aveva guardato farlo centinaia di volte, e le aveva amate tutte. Trovava il fuoco ipnotico e avrebbe trascorso ore sul tappeto lì davanti, guardando le fiamme arancioni e rosse danzare, seduta per così tanto tempo che il calore le avrebbe pizzicato la faccia.

L’emozione si arrampicò lungo la gola di Emily, minacciando di soffocarla. Pensare a suo padre, vedere così chiaramente il ricordo nella mente, le fece sgorgare dagli occhi lacrime a lungo soppresse. Non voleva piangere davanti a Daniel, non voleva sembrare una donzella patetica e indifesa. Quindi racchiuse di nuovo le emozioni dentro di sé ed entrò decisa nella stanza.

“In realtà un fuoco lo so accendere,” disse a Daniel.

“Ah, davvero?” rispose Daniel, guardandola con un sopracciglio alzato. “Prego.” Le porse i fiammiferi.

Emily li agguantò e ne accese uno, e la piccola fiamma arancione le tremolava tra le dita. La verità era che aveva sempre e solo guardato suo padre accendere il fuoco; lei non ne aveva mai acceso uno. Ma riusciva a vedere nel ricordo in modo così vivido come farlo che si sentiva fiduciosa. Quindi si inginocchiò e preparò il fuoco con i pezzi di frasche che Daniel aveva disposto sul fondo del caminetto. Nel giro di qualche secondo il fuoco si accese, facendo il familiare whomp che suonava confortante e nostalgico per lei come tutto quello che l’immensa casa conteneva. Si sentì molto orgogliosa di sé quando le fiamme cominciarono a crescere. Ma invece di salire per la canna fumaria, il fumo nero si levava a ondate all’interno della stanza.

“CAZZO!” urlò Emily quando lingue di fumo la avvolsero.

Daniel si mise a ridere. “Pensavo che sapesse come accendere un fuoco,” disse aprendo la canna fumaria. Le lingue di fumo vennero immediatamente risucchiate dal camino. “Ta-da,” aggiunse con un largo sorriso.

Mentre il fumo attorno a lei si disperdeva, Emily gli lanciò un’occhiata irritata, troppo orgogliosa per ringraziarlo dell’aiuto di cui aveva avuto così chiaramente bisogno. Ma era un sollievo stare finalmente al caldo. Sentiva ripartire la circolazione, e il calore le tornò alle dita dei piedi e al naso. Le dita rigide le si sciolsero.

Con la luce del fuoco, il soggiorno era illuminato e inondato da una lieve luce arancione. Emily riusciva finalmente a vedere tutto l’antico mobilio di cui suo padre aveva riempito la casa. Diede un’occhiata intorno, agli oggetti squallidi e trascurati. L’alta libreria stava in un angolo, una volta piena zeppa di libri che aveva letto durante le infinite giornate estive, ora ne rimanevano solo pochi. Poi c’era il vecchio pianoforte a coda alla finestra. Nessun dubbio che fosse scordato ormai, ma una volta suo padre suonava le canzoni perché lei le cantasse. Suo padre era stato così orgoglioso della casa, e vederla adesso, con la luce brillante che ne rivelava la decadenza, la turbò.

I due divani erano coperti da lenzuola bianche. Emily pensГІ di toglierle, ma sapeva che avrebbe creato una nuvola di polvere. Dopo quella di fumo, non era sicura che i suoi polmoni avrebbero potuto permettersela. E comunque, Daniel sembrava piuttosto comodo seduto sul pavimento accanto al caminetto, quindi si sistemГІ accanto a lui.

“Dunque,” disse Daniel, scaldandosi le mani al fuoco. “Alla fine un po’ di caldo l’abbiamo tirato fuori. Ma non c’è corrente in casa e dubito che lei abbia pensato di mettersi in valigia una lanterna o una candela.”

Emily scosse la testa. Aveva riempito la valigia di cose frivole, niente di utile, niente che davvero aveva bisogno di portarsi qui.

“Papà aveva sempre candele e fiammiferi,” disse. “Era preparato. Credo che mi aspettassi di trovarne una credenza ancora piena, ma dopo vent’anni…”

Si zittì, improvvisamente conscia di aver parlato di suo padre a voce alta. Non era qualcosa che faceva spesso, di solito teneva i sentimenti nei suoi confronti nascosti nel profondo di se stessa. La facilità con cui ne aveva parlato la scioccò.

“Possiamo rimanere qui allora,” disse Daniel dolcemente, accorgendosi che Emily stava provando un’emozione dolorosa del passato. “Vicino al fuoco c’è abbastanza luce per vedere. Vuole del tè?”

Emily si accigliò. “Tè? E come lo vuol fare senza corrente?”

Daniel sorrise come se avesse accettato una specie di sfida. “Guardi e impari.”

Si alzГІ e scomparve dal grande soggiorno, tornando pochi minuti dopo con un pentolino rotondo che sembrava un calderone.

“Che cos’ha lì?” chiese Emily, curiosa.

“Oh, solo il miglior tè della sua vita,” disse sistemando il calderone sulle fiamme. “Non si sa cosa sia il tè finché non si è bevuto un tè scaldato sul fuoco.”

Emily lo guardava, e il modo in cui la luce del fuoco danzava sui suoi lineamenti li accentuava rendendolo anche piГ№ attraente. La concentrazione che dedicava tutta al suo lavoro aggiungeva fascino. Emily non poteva fare a meno di meravigliarsi di fronte al suo senso pratico, alle sue risorse infinite.

“Ecco,” disse porgendole una tazza e riportandola dalle sue fantasticherie alla realtà. Guardò con aria di attesa mentre beveva il suo primo sorso.

“Oh, è davvero buono,” disse Emily, sollevata almeno di levarsi il freddo dalle ossa.

Daniel cominciГІ a ridere.

“Che c’è?” lo sfidò Emily.

“Non l’avevo ancora vista sorridere, ecco tutto,” rispose.

Emily distolse lo sguardo, sentendosi improvvisamente in imbarazzo. Daniel era l’uomo più diverso da Ben che potesse esistere, eppure l’attrazione che provava nei suoi confronti era potente. Forse in un altro luogo, in un altro momento, si sarebbe abbandonata al desiderio. Era stata solo con Ben per sette anni, dopotutto, e si meritava un po’ di attenzione, un po’ di eccitazione.

Ma quello non era il momento giusto. Non con quello che stava accadendo, con la sua vita che era un casino totale in sconvolgimento, e con i ricordi di suo padre che le vorticavano nella mente. Ovunque guardasse, le sembrava di vedere la sua ombra; seduto sul divano con una giovane Emily raggomitolata al suo fianco, a leggere un libro a voce alta; che irrompeva in casa tutto raggiante per aver trovato un antico pezzo di antiquariato al mercatino delle pulci, per poi trascorrere ore e ore a pulirlo, a riportarlo alla sua gloria passata. Dov’erano tutte queste antichità adesso? Tutte le statuette e le opere d’arte, il vasellame commemorativo e le posate dell’epoca della Guerra Civile? La casa non se n’era rimasta ferma, congelata, come nei suoi ricordi. Il tempo aveva preteso il suo tributo sulla proprietà in un modo che lei non aveva preso in considerazione.

Un’altra ondata di dolore si abbatté su Emily quando si guardò intorno nella stanza polverosa e disordinata che una volta traboccava di vita e risate.

“Come si è ridotto così questo posto?” scattò d’un tratto, incapace di sopprimere il tono accusatorio dalla voce. Si accigliò. “Voglio dire, lei dovrebbe prendersene cura, no?”

Daniel trasalì, come sorpreso dalla sua improvvisa aggressività. Appena un istante prima avevano condiviso un momento dolce e tenero. Secondi dopo lei gli urlava contro. Daniel le diede un’occhiataccia fredda. “Faccio del mio meglio. È una casa grande. E io sono da solo.”

“Scusi,” disse Emily tornando subito sui suoi passi, non volendo essere assolutamente la causa dell’espressione divenuta tetra di Daniel. “Non era mia intenzione attaccarla. Volevo solo…” Guardò la tazza e mescolò le foglie di tè. “Questo posto sembrava uscito da una favola quando ero bambina. Era così maestoso, sa? Così bello.” Alzò lo sguardo e scorse Daniel guardarla attentamente. “È solo che è triste vederlo così.”

“Che cosa si aspettava?” rispose Daniel. “È rimasto abbandonato per vent’anni.”

Emily distolse lo sguardo con tristezza. “Lo so. Probabilmente volevo immaginarlo sospeso nel tempo.”

Sospeso nel tempo, come l’immagine di suo padre che aveva in mente. Aveva ancora quarant’anni, non era invecchiato di un giorno, identico all’ultima volta che l’aveva visto. Ma in qualunque luogo si trovasse, il tempo doveva averlo toccato così come aveva fatto con la casa. La determinazione di Emily di sistemare la casa durante il weekend si fece ancora più forte. Non voleva niente di più che riportarla, anche se solo leggermente, alla sua vecchia gloria. Forse farlo sarebbe stato come riportare suo padre da lei. Poteva farlo in suo onore.

Emily bevve l’ultimo sorso di tè e mise giù la tazza. “Dovrei andare a letto,” disse. “È stata una giornata lunga.”

“Certo,” rispose Daniel, mettendosi in piedi. Si mosse veloce, lasciando la stanza e uscendo sul corridoio fino a raggiungere il portone, lasciando che Emily lo tallonasse. “Mi chiami quando è nei guai, okay?” aggiunse. “Sono nella rimessa che sta laggiù.”

“Non ne avrò bisogno,” disse Emily con sdegno. “Posso fare da sola.”

Daniel aprì la portone, lasciando che la neve ristoratrice entrasse. Si raccolse nella giacca, poi guardò indietro, al di sopra della spalla. “L’orgoglio non la porterà lontano qui, Emily. Non c’è nulla di male nel chiedere aiuto.”

Voleva urlargli qualcosa, litigare, rifiutare la sua affermazione che lei fosse troppo orgogliosa, ma invece gli guardГІ la schiena mentre lui spariva nella buia neve che vorticava, incapace di parlare, la lingua completamente legata.

Emily chiuse la porta, chiudendo fuori il mondo esterno e la furia della bufera. Ora era completamente sola. La luce si riversava nell’ingresso dal fuoco nel soggiorno, ma non era abbastanza intensa da raggiungere le scale. Guardò su la lunga scala di legno sparire nel buio. A meno che non fosse preparata a dormire su uno dei divani impolverati, avrebbe dovuto trovare il coraggio di avventurarsi di sopra nel buio pesto. Si sentì di nuovo una bambina, impaurita all’idea di scendere nella cantina piena di ombre, inventandosi ogni genere di mostri e cose macabre che la stavano ad aspettare là sotto per prenderla. Solo che ora era una donna adulta di trentacinque anni, troppo spaventata all’idea di salire di sopra perché sapeva che la vista dell’abbandono era peggiore di qualsiasi mostro che la sua mente riuscisse a creare.

Invece Emily tornò nel soggiorno per assorbire l’ultimo calore dal fuoco. C’erano ancora alcuni libri sulla libreria – Il giardino segreto, Cinque bambini e la cosa – dei classici che suo padre le leggeva. Ma il resto? Dov’erano finite le cose di suo padre? Erano scomparse in un luogo sconosciuto così come aveva fatto lui.

Mentre le braci si spegnevano l’oscurità la avvolgeva, in accordo con il suo umore tetro. Non poteva più ignorare la stanchezza; era venuto il momento di salire quei gradini.

Appena lasciò la stanza, sentì uno strano rumore strascicato venire dal portone. Prima il suo pensiero andò a una qualche creatura selvaggia che fiutava carcasse, ma il rumore era troppo preciso, troppo pensato.

Con il cuore martellante, si spostò silenziosamente attraverso l’ingresso e si avvicinò al portone, posandoci contro l’orecchio. Qualunque cosa pensasse di aver sentito, ora non c’era più. Tutto quello che riusciva a sentire era l’ululato del vento. Ma qualcosa la costrinse ad aprire la porta.

La spinse e vide che sistemate davanti alla soglia c’erano delle candele, una lanterna e dei fiammiferi. Daniel doveva essere tornato e doveva averglieli lasciati qui.

Li raccolse, accettando con riluttanza la sua offerta d’aiuto, con l’orgoglio che le pungeva. Ma allo stesso tempo era molto più che grata che ci fosse qualcuno a occuparsi di lei. Aveva pure abbandonato la sua vita per correre in questo posto, ma non era completamente sola.

Emily accese la lanterna e finalmente si sentì abbastanza coraggiosa da salire di sopra. Mentre la fioca luce della lanterna la guidava in cima alle scale, guardò i quadri appesi al muro, pieni di immagini sfuocate dal tempo, avvolte in ragnatele che le riempivano di polvere. Per la maggior parte i quadri erano acquerelli che ritraevano i dintorni – barche a vela sull’oceano, sempreverdi del parco nazionale – ma uno era un ritratto di famiglia. Si fermò, fissando la figura, guardando l’immagine di se stessa da piccola. Si era completamente dimenticata di questo quadro, che aveva confinato da qualche parte nella memoria e l’aveva relegato là per vent’anni.

Sopprimendo un’ondata di sentimenti, continuò a salire i gradini. La vecchia scala scricchiolava rumorosamente sotto di lei ed Emily notò che alcuni gradini erano rotti. Erano sbeccati da anni di passi e la colpì un ricordo di lei che correva su e giù da questi gradini in scarpe rosse.

Nel vestibolo al piano di sopra la luce della lanterna illuminò un lungo corridoio – le numerose porte di quercia scura, e alla fine la finestra che andava dal pavimento al soffitto che ora era chiusa dal compensato. La sua vecchia camera era l’ultima a destra, di fronte al bagno. Non riusciva a sopportare il pensiero di guardare in quella stanza. Troppi ricordi erano contenuti lì, troppi perché potesse liberarli adesso. E non le faceva tanto piacere l’idea di scoprire che genere di bestie avevano preso alloggio nel bagno nel corso degli anni.

Invece Emily incespicГІ lungo il corridoio, superГІ la cassettiera contro cui aveva sbattuto le dita dei piedi un sacco di volte, e si infilГІ nella camera dei suoi genitori.

Alla luce della lanterna, Emily riuscì a vedere quanto fosse impolverato il letto, quanto la biancheria fosse stata rosicchiata dalle tarme negli anni. Il ricordo del bel letto a baldacchino che i suoi avevano condiviso andò in pezzi nella sua mente mentre si confrontava con la realtà. Vent’anni di abbandono avevano devastato la stanza. Le tende erano sporche e spiegazzate, scendevano flosce sulle finestre sprangate. I portacandele da parete erano inspessiti dalla polvere e dalle ragnatele, sembrava che intere generazioni di famiglie di ragni ne avessero fatto la loro casa. Uno strato di spessa polvere stagnava su tutto, incluso il tavolo da toletta alla finestra, il piccolo sgabello su cui sua madre si sedeva molti anni prima quando si spalmava in viso la crema alla lavanda davanti allo specchietto di cortesia.

Emily vide tutto, tutti i ricordi che aveva sepolto negli anni. Non riuscì a trattenere le lacrime. Tutte le emozioni che aveva provato negli ultimi giorni la assalirono, intensificate dai ricordi di suo padre, dallo choc improvviso di quanto le mancava.

Fuori, il suono della bufera si intensificava. Emily ripose la lanterna sul comodino, sollevando una nuvola di polvere, e si preparò per andare a letto. Il calore del fuoco non era arrivato fin lassù e la stanza era di un freddo pungente quando si tolse i vestiti. In valigia trovò la camicetta di seta e capì che non le sarebbe stata molto utile lì; sarebbe stata meglio con una poco signorile calzamaglia e grossi calzini da notte.

Emily scostГІ la coperta patchwork cremisi e oro tutta impolverata e scivolГІ nel letto. FissГІ il soffitto per un attimo, riflettendo su tutto quello che le era accaduto negli ultimi giorni. Sola, infreddolita e indifesa, soffiГІ sulla fiamma della lanterna, immergendosi nel buio, e pianse fino ad addormentarsi.




CAPITOLO QUATTRO


La mattina seguente Emily si svegliò presto, sentendosi disorientata. C’era così poca luce che entrava nella stanza dalle finestre sprangate, che le ci volle un po’ per capire dove si trovasse. Gli occhi le si abituarono piano alla penombra, la stanza le si materializzò intorno, e ricordò – Sunset Harbor. La casa di suo padre.

Trascorse un momento prima che ricordasse di essere anche senza lavoro, senza casa, e completamente sola.

Trascinò il suo corpo esausto fuori dal letto. L’aria del mattino era fredda. Il suo riflesso nello specchietto di cortesia impolverato la spaventò; aveva il viso gonfio delle lacrime che aveva versato la notte precedente, la pelle tirata e pallida. Improvvisamente le venne in mente di non aver mangiato abbastanza il giorno precedente. L’unica cosa che aveva messo nello stomaco la sera prima era stata la tazza di tè bollito sul fuoco acceso da Daniel.

Esitò momentaneamente davanti allo specchio, guardando il suo corpo riflesso nel vetro vecchio e sporco mentre la sua mente riviveva la notte appena trascorsa – il calore del fuoco, lei che sedeva al focolare con Daniel bevendo tè, Daniel che si prendeva gioco della sua incapacità di prendersi cura della casa. Ricordò i fiocchi di neve tra i suoi capelli quando gli aveva aperto la porta la prima volta, e il modo in cui si era ritirato nella bufera, scomparendo nella notte nera d’inchiostro veloce com’era apparso.

Il brontolio dello stomaco la riportò fuori dai suoi pensieri e nel presente. Si vestì velocemente. La camicia spiegazzata che indossò era troppo sottile per l’aria fredda quindi si appoggiò la coperta polverosa del letto sulle spalle. Poi uscì dalla camera e scese di sotto a piedi scalzi.

Dabbasso, tutto era silenzio. Scrutò attraverso la finestra gelata del portone e si stupì di vedere che nonostante la tormenta si fosse esaurita, erano caduti novanta centimetri di neve, rendendo il mondo di un biancore liscio, immobile e infinito. Non aveva mai visto così tanta neve in tutta la sua vita.

Emily riusciva a vedere solo le impronte di un uccello che aveva saltellato sulla strada lì fuori, ma oltre a quello niente era stato disturbato. Tutto sembrava pacifico, ma allo stesso tempo desolato, e ricordò a Emily la sua solitudine.

Capendo che avventurarsi fuori non era un’opzione praticabile, Emily decise di esplorare la casa e vedere cosa contenesse, se mai c’era qualcosa. La casa era così buia la sera prima che non era riuscita a dare tanto un’occhiata in giro, ma adesso con la luce del giorno era una cosa più facile a farsi. Andò prima in cucina, guidata istintivamente dallo stomaco che brontolava.

La cucina era ancora più disastrata di quanto le fosse sembrato la sera prima. Il frigorifero – un Prestcold originale color panna degli anni Cinquanta che suo padre aveva trovato a un mercatino estivo dell’usato – non funzionava. Cercò di ricordare se lo avesse mai fatto, o se fosse stato un altro fastidio per sua madre, un’altra di quelle cose inutili con cui suo padre aveva riempito la casa. Emily trovava le sue collezioni noiose quando era piccola, ma adesso faceva tesoro di quei ricordi, aggrappandosi a essi più forte che poteva.

Dentro al frigo Emily trovò solo un odore terribile. Lo chiuse subito, assicurando bene la porta prima di mettersi a esaminare il contenuto delle credenze. Lì trovò una vecchia scatoletta di mais con l’etichetta completamente scolorita dal sole, e una bottiglia di aceto di malto. Considerò brevemente di prepararsi qualcosa da mangiare con quelle cose, ma decise di non essere ancora così disperata. L’apriscatole era bloccato dalla ruggine comunque, quindi neanche volendo avrebbe potuto mangiare il mais.

Poi andò nella lavanderia, dove si trovavano la lavatrice e l’asciugatrice. La stanza era buia, la finestrella coperta dal compensato come molte altre della casa. Emily premette il bottone delle macchine ma non si sorprese nel vedere che non funzionavano. Sempre più frustrata dalla situazione, Emily decise di passare all’azione. Si arrampicò sulla credenza e tentò di strappare via un pezzo di compensato. Era più difficile di quanto si aspettasse, ma lei era determinata. Tirò e tirò, usando tutta la forza delle sue braccia. Alla fine l’asse cominciò a spaccarsi. Emily diede un ultimo strattone e il compensato cedette, venendo completamente via dalla finestra. Ci aveva messo così tanta forza che Emily cadde dal piano, la pesante asse le scivolò dalle mani e oscillò contro la finestra. Emily sentì il rumore della finestra che si rompeva nello stesso momento in cui si schiantava sul pavimento, attorcigliandosi su se stessa.

L’aria gelida entrò subito nella lavanderia. Emily gemette e si rimise a sedere prima di controllare il corpo ammaccato per assicurarsi di non avere niente di rotto. Le faceva male la schiena e se la strofinò mentre guardava la finestra rotta che lasciava entrare un fioco fiume di luce. La frustrò vedere che nel tentativo di risolvere un problema aveva solo peggiorato le cose.

Fece un respiro profondo e si mise in piedi, poi con attenzione raccolse l’asse dalla credenza dove era caduta. Pezzetti di vetro caddero a terra e si ruppero. Emily controllò l’asse e vide che i chiodi erano completamente ricurvi. Anche se fosse stata in grado di trovare martello – cosa di cui dubitava fortemente – i chiodi erano comunque troppo ricurvi. Poi vide di essere riuscita a spaccare la cornice della finestra mentre strappava il compensato. Doveva cambiare tutto.

Emily aveva troppo freddo per rimanere nella dispensa. Attraverso la finestra rotta si confrontò con lo stesso e infinito bianco panorama nevoso. Agguantò la coperta dal pavimento e se la rimise sulla spalle, poi lasciò la dispensa e si diresse nel soggiorno. Almeno lì era in grado di accendere il fuoco e scaldarsi un po’ le ossa.

Nel soggiorno, l’odore confortante del legno bruciato era ancora nell’aria. Emily si accucciò davanti al caminetto e si mise ad accatastare frasche e ciocchi su piramidi. Questa volta si ricordò di aprire la canna fumaria, e fu un sollievo quando la prima fiamma prese vita.

Tornò sui talloni e si scaldò le mani infreddolite. Poi si accorse del pentolino dove Daniel aveva preparato il tè seduto davanti al fuoco. Non aveva rimesso in ordine, e il pentolino e le tazze erano ancora dove le avevano lasciate la notte precedente. Le attraversarono la mente i ricordi di lei e Daniel che condividevano il tè, parlando della vecchia casa. Le brontolò lo stomaco, ricordandole la fame, e decise di preparare un po’ di tè proprio come Daniel le aveva mostrato, pensando che le avrebbe calmato la fame almeno per un po’.

Non appena terminato di sistemare il pentolino sul fuoco, sentì lo squillo del telefonino venire da qualche punto della casa. Anche se si trattava di un suono familiare, fece un salto a sentirlo suonare adesso, con l’eco che rimbombava nei corridoi. L’aveva lasciato perdere quando si era accorta che non prendeva, quindi lo squillo era davvero una sorpresa.

Emily balzò in piedi, abbandonò il tè e seguì il rumore. Trovò il cellulare sul mobile dell’ingresso. La chiamava un numero sconosciuto, e rispose un po’ confusa.

“Oh, um, ciao,” disse l’anziana voce da uomo all’altro capo del filo. “È lei la signora che sta al quindici di West Street?” Il segnale non era buono e la voce dolce ed esitante dell’uomo si sentiva appena.

Emily si accigliò, confusa dalla telefonata. “Sì. Lei chi è?”

“Mi chiamo Eric. Io, ecco, io consegno il gasolio in tutte le proprietà dell’area. Ho sentito che sta alla vecchia casa così ho pensato di passare per una consegna. Cioè, se, be’, se le serve.”

Emily poteva crederci a stento. Le notizie ci avevano messo ben poco a girare nella piccola comunità. Ma un attimo; come aveva avuto Eric il suo numero di cellulare? Poi si ricordò che Daniel le aveva guardato il telefono quando gli aveva detto di aver problemi con la linea. Doveva averlo visto e memorizzato, con l’idea di passarlo a Eric. Addio orgoglio, poteva a malapena contenere la sua gioia.

“Sì, sarebbe fantastico,” rispose. “Quando può venire?”

“Be’,” rispose l’uomo con la solita voce nervosa e quasi imbarazzata. “A dire il vero sono già sul furgone e sto venendo lì.”

“Sul serio?” balbettò Emily, non riuscendo a credere alla sua fortuna. Diede un’occhiata all’ora sul cellulare. Non erano neanche le otto. O Eric si recava al lavoro prestissimo normalmente, o stava facendo questo viaggio proprio per lei. Si chiese se l’uomo che le aveva dato un passaggio la scorsa notte si fosse messo in contatto con l’azienda del gasolio per conto suo. O era stato lui o… Daniel?

Scacciò il pensiero dalla mente e riportò l’attenzione alla conversazione telefonica. “Riuscirà ad arrivare qui?” chiese. “C’è molta neve.”

“Di questo non si preoccupi,” rispose Eric. “Il furgone può sopportare la neve. Si assicuri che ci sia la strada libera fino alla cisterna del gasolio.”

Emily si spaccò il cervello cercando di ricordare se aveva visto una pala da qualche parte in casa. “Okay, farò del mio meglio. Grazie.”

Cadde la linea ed Emily si mise in azione. Corse di nuovo in cucina, controllando ogni credenza. Non c’era nulla che neanche si avvicinasse a ciò di cui aveva bisogno, quindi provò con tutte le credenze della dispensa, e poi quelle della lavanderia. Alla fine trovò una pala da neve puntellata contro la porta sul retro. Emily non aveva mai pensato in vita sua di potersi sentire così emozionata all’idea di vedere una pala, ma ci si aggrappò come a una cima di salvataggio. Era così elettrizzata che quasi si dimenticò di indossare delle scarpe. Ma come la sua mano passò sopra al chiavistello per aprire la porta sul retro, vide le sue scarpe da ginnastica che facevano capolino da una borsa che aveva lasciato lì. Le indossò velocemente e poi tirò la porta, tenendo stretta la preziosa pala.

Subito, la gravità e la portata della tempesta di neve le divennero chiare. Guardare la neve dalla finestra era una cosa, ma vedere il cumulo di novanta centimetri che le si stagliava davanti come un muro di ghiaccio era un’altra.

Emily non sprecò tempo. Mandò a sbattere la pala contro il muro di neve e ghiaccio e cominciò a scolpire un passaggio fuori dalla casa. Era difficile; nel giro di pochi minuti sentì il sudore gocciolarle lungo la schiena, le braccia doloranti, ed era sicura che avrebbe avuto le vesciche alle mani una volta finito.

Dopo aver attraversato novanta centimetri di neve, Emily cominciò a trovare il ritmo. C’era qualcosa di catartico in quel lavoro, sullo slancio necessario a spalare la neve. Persino la sgradevolezza fisica sembrava importare meno quando cominciò a vedere come i suoi sforzi la stessero ripagando. A New York il suo sport preferito era correre sul tapis roulant, ma questo era l’allenamento più faticoso che avesse mai fatto.

Emily era riuscita ad aprire un sentiero di tre metri attraverso il cortile posteriore alla casa.

Ma alzò gli occhi disperata per vedere che la cisterna si trovava a dieci metri buoni di distanza – e lei era già distrutta.

Cercando di non disperarsi troppo, decise di riposare per un momento per recuperare fiato. Mentre riposava, vide la casa del custode lontano lungo il giardino, nascosta vicino ai sempreverdi. Una piccola cresta di fumo sorgeva dal camino e una luce calda si diffondeva dalle finestre. Emily non poté fare a meno di pensare a Daniel lì dentro, che beveva il suo tè, bello al calduccio. Lui l’avrebbe aiutata, non aveva dubbi, ma voleva mettersi alla prova. L’aveva presa in giro senza pietà la sera prima, e con ogni probabilità era stato proprio lui a chiamare Eric, tanto per cominciare. Doveva averla vista come una donzella in difficoltà, ed Emily non voleva dargli la soddisfazione di dargli ragione.

Ma aveva lo stomaco che si lamentava ancora ed era esausta. Troppo esausta per proseguire. Emily era in piedi nel fiume che aveva creato, improvvisamente travolta dalla sua situazione difficile, troppo orgogliosa per chiedere l’aiuto di cui aveva bisogno, troppo debole per fare ciò che aveva bisogno di fare da sola. La frustrazione le salì dentro fino a trasformarsi in calde lacrime. Le lacrime la fecero sentire ancora più arrabbiata, arrabbiata con se stessa per essere inutile. Nella sua mente frustrata, si sgridava e, come una bambina petulante e cocciuta, si decideva a tornare a casa non appena la neve si fosse sciolta.

Gettando via la pala, Emily tornГІ a passi pesanti dentro casa, con le scarpe fradice. Le calciГІ via sulla soglia e poi tornГІ nel soggiorno per scaldarsi al fuoco.

Si stravaccò sul divano impolverato e prese il telefono, preparandosi a chiamare Amy e a darle l’ovvia notizia di aver fallito nel suo primo e unico tentativo di essere autosufficiente. Ma la batteria era scarica. Trattenendo un grido, Emily lanciò l’inutile cellulare di nuovo sul divano, poi cadde di peso sul fianco, totalmente sconfitta.

Attraverso i suoi stessi singhiozzi, Emily sentì il rumore di passi strascicati venire da fuori. Si mise seduta, si asciugò gli occhi, poi corse alla finestra e guardò fuori. Vide subito che Daniel era lì, teneva in mano la pala che lei aveva gettato, scavava tra la neve e continuava quello che lei non era riuscita a portare a termine. Emily riusciva a stento a credere quanto fosse veloce ad aprire un passaggio, quanto fosse esperto, quanto fosse bravo, come se fosse nato per lavorare la terra. Ma la sua ammirazione ebbe vita breve. Invece di sentirsi grata nei confronti di Daniel o felice di vedere che lui era riuscito ad aprire un percorso fino alla cisterna, si sentì arrabbiata con lui, diresse la sua impotenza contro di lui invece che dentro di sé.

Senza neanche pensare a quello che stava facendo, Emily raccolse le scarpe fradice e le indossò di nuovo. Nella sua mente i pensieri correvano veloci; ricordi di tutti gli inutili ex fidanzati che non le avevano prestato ascolto, che erano intervenuti per “salvarla”. Non si trattava solo di Ben; prima di lui c’era stato Adrian, che era così iperprotettivo con lei da essere soffocante, e poi prima di lui c’era stato Mark, che la trattava come un fragile soprammobile. Ognuno di loro era venuto a sapere del suo passato – la misteriosa scomparsa del padre era solo la punta dell’iceberg – e l’aveva trattata come una cosa che aveva bisogno di protezione. Erano stati tutti quegli uomini del suo passato che l’avevano fatta così e lei non lo voleva più sopportare.

Si precipitГІ fuori nella neve.

“Ehi!” urlò. “Cosa sta facendo?”

Daniel fece una brevissima pausa. Non si girò neanche a guardarla ma continuò a spalare, prima di rispondere con calma, “Apro un sentiero.”

“Questo lo vedo,” ribatté Emily. “Quello che voglio sapere è il perché, dato che le avevo detto di non aver bisogno del suo aiuto.”

“Perché altrimenti congelerà,” rispose Daniel semplicemente, continuando a non guardarla. “E congelerà anche l’acqua, ora che l’ho accesa.”

“E quindi?” rimbeccò Emily. “A lei che interessa se congelo? La vita è mia. Posso congelare se lo voglio.”

Daniel non aveva fretta di interagire con Emily, né di alimentare il litigio a cui lei stava evidentemente cercando di dare il via. Continuava solo a spalare, calmo, metodico, così indifferente alla sua presenza che sembrava che lei non ci fosse nemmeno.

“Non sono preparato a mettermi seduto e lasciarla morire,” rispose Daniel.

Emily incrociò le braccia. “Credo che stia facendo un po’ il melodrammatico, no? C’è una bella differenza tra prendere un po’ di freddo e morire!”

Alla fine, Daniel ficcò la pala nella neve e si raddrizzò. Incontrò gli occhi di lei con un espressione indecifrabile. “Quella neve era tanto alta da coprire il tubo di scarico. Se riesce ad accendere la caldaia, torna tutto nella casa. Morirà di avvelenamento da carbonio in una ventina di minuti.” Lo disse come fosse una cosa così ovvia che Emily si sbalordì. “Se vuole morire, lo faccia nel suo tempo libero. Ma non accadrà sotto la mia sorveglianza.” Poi lanciò la pala a terra e tornò alla rimessa.

Emily se ne stava lì in piedi, a guardarlo andare, sentendo che la rabbia le si scioglieva solo per lasciare il posto alla vergogna. Si sentiva malissimo per il modo in cui aveva parlato a Daniel. Stava solo cercando di aiutarla e lei gli aveva ributtato tutto in faccia come una bambina maleducata.

Era tentata di corrergli dietro, per scusarsi, ma in quel momento il furgone del gasolio apparve alla fine della strada. Emily sentì il cuore alzarsi, sorpresa di quanto fosse felice dal semplice fatto che stava per esserle consegnato il gasolio. La vita nella casa del Maine era quanto più diversa possibile dalla vita a New York.

Emily guardò Eric scendere dal furgone, con sorprendente agilità per uno così vecchio. Era vestito con una tuta da lavoro macchiata di olio come un personaggio di un cartone animato. Il suo viso era segnato dalle intemperie, ma in modo dolce.

“Salve,” disse con la stessa insicurezza che aveva al telefono.

“Sono Emily,” disse Emily allungando una mano per stringere la sua. “Sono molto felice che lei sia qui.”

Eric si limitò ad annuire, e si mise subito al lavoro per sistemare la pompa idraulica. Chiaramente non era tipo da chiacchierare, ed Emily se ne stava lì in piedi scomoda a guardarlo lavorare, sorridendo debolmente ogni volta che notava il suo sguardo andare un attimo a lei, come confuso dal fatto che lei fosse lì.

“Può mostrarmi la caldaia?” chiese una volta che fu tutto a posto.

Emily pensò alla cantina, al suo odio nei confronti dei grossi macchinari che erano lì per dare energia alla casa, alle migliaia di ragni che vi avevano teso le loro tele nel corso degli anni.

“Sì, da questa parte,” rispose con vocina flebile.

Eric tirò fuori la pila e insieme scesero nella cantina buia e inquietante. Proprio come Daniel, Eric sembrava aver mano con la roba meccanica. In pochi secondi l’enorme caldaia tornò in vita. Emily non riusciva a trattenersi; buttò le braccia al collo dell’anziano.

“Funziona! Non riesco a credere che funzioni!”

Eric si irrigidì quando lo toccò. “Be’, non deve incasinare un casa così vecchia,” disse.

Emily mollò la presa. Non le importava neanche che un’altra persona le avesse detto di smetterla, di mollare tutto, che non era abbastanza brava. La casa adesso aveva il riscaldamento e l’acqua, e questo voleva dire che lei non doveva tornare a New York come una fallita.

“Ecco,” disse Emily prendendo la borsa. “Quanto le devo?”

Eric scosse solo la testa. “È stato già provveduto,” rispose.

“Chi ha provveduto?” chiese Emily.

“Qualcuno,” rispose Eric evasivo. Chiaramente non lo metteva a suo agio essere stato infilato in quella strana situazione. Chiunque l’avesse pagato per venire e fare scorta delle sue riserve di gasolio doveva avergli chiesto di mantenere il silenzio e tutta la situazione lo imbarazzava.

“Be’, okay,” disse Emily. “Se lo dice lei.”

Dentro di sГ© decise di scoprire chi avesse pagato, per restituire il denaro.

Eric si limitò ad annuire una volta, brusco, poi risalì le scale. Emily lo seguiva di corsa, non volendo restare sola in cantina. Un gradino dopo l’altro, notò di avere una nuova elasticità nei suoi passi.




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